
Fast fashion: cos’è e perché è così dannosa per l’ambiente?
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Belli ed economici, ma anche estremamente dannosi per l’ambiente e spesso realizzati in maniera poco etica: il reale costo dei capi di fast fashion va ben oltre il prezzo indicato sul cartellino. In questo articolo scopriremo perché l’industria della moda “usa e getta” è tra quelle a più alto impatto ambientale e sociale e perché si basa su un modello di produzione ormai non più sostenibile.
Belli, sempre alla moda e alla portata di tutte le tasche: insomma, il sogno di qualsiasi fashionista. Eppure, qualcosa di molto più oscuro si nasconde dietro allo sfavillante mondo della fast fashion, letteralmente “moda veloce”: ad esempio, che questa è una delle industrie a più alto impatto ambientale e responsabile di oltre il 10% dell’inquinamento globale, nonché di diffuse violazione dei diritti dei lavoratori, sfruttamento della manodopera minorile e violenze sugli animali.
Nonostante un numero sempre maggiore di report ed inchieste stiano portando alla luce il disastroso impatto ambientale della “moda e usa getta”, il settore non sembra affatto rallentare. Basti pensare che, soltanto nell’ultimo anno, il mondo della moda fast ha registrato una crescita senza precedenti, passando da un valore di mercato di circa 91,3 miliardi di dollari nel 2021, a quasi 100 miliardi nel 2022. E si stima che questa crescita continuerà negli anni a venire, raggiungendo i 133,43 miliardi di dollari nel 2026. Ma perché non riusciamo a smettere di acquistare i capi di fast fashion?
Da un lato, i consumatori non sono in grado di rinunciare all’effimero piacere di riempire il guardaroba con nuovi abiti (peraltro a prezzi molto ridotti) che, in molti casi, non saranno mai indossati. Dall’altra, le industrie stesse non hanno adeguati incentivi per cambiare un modello produttivo che, per quanto insostenibile, sembra davvero funzionare alla grande. Non a caso, è ormai quello adottato da tutti i grandi brand presenti nelle catene di retail più conosciute. Nonostante questo, ci troviamo ormai in un momento storico in cui non possiamo più restare ciechi di fronte al reale costo della fast fashion, quello pagato dal nostro Pianeta – già messo a dura prova dagli effetti devastanti del cambiamento climatico – e dai milioni di lavoratori (spesso sotto il limite legale d’età) sfruttati da quest’industria.
Per comprendere più nel dettaglio qual è il reale impatto ambientale della fast fashion e, idealmente, mettere in discussione i nostri modelli di consumo ed optare per modelli produttivi più sostenibili, dobbiamo prima di tutto capire cos’è la fast fashion, perché si basa su un modello produttivo che funziona così bene, e quali sono le logiche che muovono questo settore.
Che cos’è la fast fashion?
Perché si basa su un modello produttivo che funziona così bene? Per capire cos’è la fast fashion, dobbiamo fare un passo indietro di trent’anni, precisamente all’anno 1990, quando il termine è stato utilizzato per la prima volta dal New York Times per descrivere la strategia di marketing del colosso di abbigliamento Zara, da poco sbarcato nella Grande Mela, che aveva dichiarato di impiegare soltanto 15 giorni per progettare, produrre, distribuire, e vendere i suoi capi.
Un modello produttivo diventato sempre più popolare ed è stato con il tempo adottato da tutti i più grandi marchi di abbigliamento comunemente venduti nei grandi centri commerciali, al punto che oggi il termine “fast fashion” è largamente entrato nel linguaggio comune. Ma che cos’è, nello specifico, la fast fashion, e perché questo modello di business funziona così bene?
Oggi, il termine “fast fashion” è utilizzato per descrivere un modello produttivo molto popolare all’interno dell’industria della moda, basato sulla continua e rapida produzione di altissimi volumi di abbigliamento, che vengono poi venduti a prezzi altrettanto bassi. Basti pensare che ogni anno le aziende di fast fashion producono, complessivamente, oltre 100 miliardi di capi di abbigliamento.
A rendere possibile questa iper-produzione di capi – e la loro vendita a prezzi super ridotti – è, da un lato, l’utilizzo di materiali di bassa qualità e, dall’altro, la scelta di appaltare la manodopera ad aziende operanti in Paesi in via di sviluppo, dove non vengono riconosciuti i diritti di base dei lavoratori e in cui non esistono norme che disciplinano la tutela dell’ambiente da parte delle industrie.
A questo si aggiungono poi le vantaggiosissime economie di scala (ovvero il fenomeno di riduzione dei costi e dell’aumento dell’efficienza legato ad un maggiore volume di produzione), rese possibili proprio dall’elevato numero di capi prodotti.
Dal lato del consumatore, invece, i prezzi estremamente accessibili e la possibilità di poter acquistare nuove collezioni all’ultima moda praticamente ogni settimana non fanno altro che alimentare il suo bisogno impellente di essere costantemente al passo con le ultime tendenze, spingendolo in un circolo vizioso che lo porta a continuare a sostenere la domanda di questi capi – e quindi la loro produzione.
Capi che spesso hanno una vita molto breve: non solo la bassa qualità dei materiali utilizzati porta molto velocemente alla loro rottura, ma spesso i consumatori si stancano di questi capi ancora prima di averli indossati. Basti pensare che in media, i consumatori di fast fashion indossano i loro vestiti solo 4 volte. Il 60% di loro dice che dopo poco si stancano di essi ed il restante 40% crede che questo capo non sia più di moda.
Insomma, si tratta di un modello di business in apparenza perfettamente funzionante, in grado di rispondere sia alla fame di profitti da parte delle industrie, che ai bisogni dei consumatori, ormai abituati a poter comprare tutto e subito, e per di più senza andare in bancarotta! Tuttavia, quello che spesso passa in secondo piano è, invece, l’impatto ambientale della fast fashion che, stando ai dati a nostra disposizione, si rivela il secondo settore più inquinante al mondo, preceduto soltanto da quello petrolifero.
L’impatto ambientale della fast fashion
Quanto inquina la “moda veloce”? Inquinamento di aria ed acqua, uso di materiali potenzialmente tossici per l’uomo e l’ambiente, deforestazione ed abuso di fertilizzanti ed altri pesticidi chimici: queste sono solo alcune delle problematiche ambientali legate alla produzione di un altissimo numero di vestiti, spesso realizzati con materiali di bassa qualità, in pochissimo tempo. Analizziamo più nel dettaglio l’impatto ambientale della fast fashion.
Inquinamento dell’aria dovuto alle emissioni di CO2 legate al trasporto dei capi su lunga distanza
Come abbiamo visto, un elemento chiave del modello produttivo adottato dai colossi della fast fashion è quello di trasferire gran parte della produzione in Paesi del Terzo mondo, dove i costi delle materie prime e della manodopera sono sensibilmente minori. Questa pratica, detta anche “outsourcing”, non è soltanto estremamente popolare, ma è anche estremamente pericolosa per l’ambiente.I capi di abbigliamento devono infatti viaggiare decine di migliaia di km per raggiungere i mercati esteri, generando oltre il 10% delle emissioni di carbonio a livello mondiale, quantificabili in circa 4-5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica immesse nell’atmosfera ogni anno. Per avere un’idea delle dimensioni di questo fenomeno, basti pensare che questi valori ammontano a più del totale delle emissioni causate dai voli internazionali e dalle tratte marittime messi insieme.
Incapacità di gestire correttamente i rifiuti prodotti dall’industria
Un’altra grande problematica legata all’industria della fast fashion è legata alla produzione di rifiuti tessili, e all’incapacità della stessa di gestirli in modo sostenibile. Come abbiamo detto, uno dei presupposti che contribuiscono al successo di questo modello produttivo è proprio il fatto che i vestiti della fast fashion passano di moda in modo estremamente rapido, inducendo il consumatore a sbarazzarsene altrettanto velocemente per poter rinnovare il proprio guardaroba. Basti pensare che, secondo alcune statistiche, i consumatori di fast fashion indossano in media i loro vestiti solo 4 volte, con un 60% che si stanca di essi ed il restante 40% crede che questo capo non sia più di moda. Inoltre, i capi di fast fashion sono spesso realizzati con materiali di bassissima qualità, e tendono quindi a sciuparsi molto rapidamente. Il risultato è che, il più delle volte, questi finiscono nel bidone della spazzatura già dopo pochi utilizzi. Dal canto loro, i grandi colossi della fast fashion sono soliti gettare i capi invenduti, in modo da far spazio alle nuove collezioni. La portata di questo fenomeno sta raggiungendo dimensioni catastrofiche, al punto che un camion della spazzatura pieno di abiti non indossati viene portato in discarica ogni secondo, dove sarà poi generalmente incenerito, per un totale di oltre 92 milioni di tonnellate di vestiti gettati via ogni anno. Oltre agli evidenti danni paesaggistici, se non saremo in grado di invertire questa tendenza, entro il 2050 l’industria della moda sarà responsabile per più di un quarto delle emissioni di carbonio prodotte su scala globale. Senza contare il fatto che circa il 10 per cento delle microplastiche presenti negli oceani deriva proprio dai tessuti sintetici che non vengono smaltiti correttamente.
Inquinamento e spreco delle risorse idriche
L’industria della moda è altresì responsabile, da sola, di circa il 20% delle acque reflue globali, ovvero acque di scarico contenenti sostanze organiche e inorganiche che possono recare danno alla salute umana e all’ambiente. Inoltre, gli agenti chimici usati nei diversi processi di tintura dei tessuti rappresentano la seconda causa di inquinamento idrico a livello globale. Da non tralasciare anche il fatto che la produzione tessile è un’attività estremamente “water-intensive” (ad elevato consumo di acqua): secondo lo studio “Carbon and water footprints assessment of cotton jeans using the method based on modularity: A full life cycle perspective”, per produrre un paio di jeans si consumano circa 13 mila litri di acqua, ovvero quasi 90 tonnellate. Se moltiplichiamo questi numeri per gli oltre 100 miliardi di capi prodotti ogni anno, ci accorgeremo che l’industria della fast fashion è la seconda per consumo di risorse idriche, con oltre 215 mila miliardi di litri di acqua utilizzati all’anno. Cifre estremamente preoccupanti se consideriamo la crisi idrica che sta attualmente mettendo a serio rischio la sopravvivenza di centinaia di milioni di persone, perlopiù in Paesi poco sviluppati, nonché di interi ecosistemi e dei loro abitanti.
Utilizzo di materie prime sintetiche inquinanti e pericolose per la salute umana
Non solo i processi produttivi, ma anche le materie prime più utilizzate dall’industria della fast fashion sono potenzialmente molto dannose per l’ambiente, gli animali e la salute umana. Tra quelle più utilizzate troviamo infatti petrolio e derivati (quali poliestere, nylon, acrilico ed altre fibre sintetiche), che costituiscono circa il 60% delle materie prime con cui vengono prodotti gli indumenti dei più comuni marchi di fast fashion. Oltre ai costi ambientali derivanti dalla produzione ed uso di derivati del carbon fossile, il lavaggio a mano o in lavatrice di abiti creati – interamente o in parte – con materie prime sintetiche provoca il rilascio nelle falde acquifere di più di mezzo milione di tonnellate di microplastiche all’anno, che finiscono poi direttamente (o indirettamente attraverso il ciclo dell’acqua), nell’oceano. Se in alte concentrazioni, queste possono alterare il normale funzionamento degli ecosistemi marini, oltre che essere potenzialmente pericolose per la salute umana.
Uso di fertilizzanti e pesticidi chimici nella produzione del cotone e delle fibre naturali utilizzate dalla fast fashion
Forse in molti non sapranno che l’industria della fast fashion fa largo uso del cotone, (tanto da essere il secondo materiale più usato dopo quelli di derivazione sintetica), una fibra naturale relativamente economica e facile da coltivare. Tuttavia, i bassi prezzi di questo materiale celano, ancora una volta, una realtà alquanto infausta. Oltre a essere tra le coltivazioni a più alta intensità di acqua, le monoculture di cotone sono tra le principali responsabili – assieme a quelle di mais, soia ed altri mangimi animali – della deforestazione che sta minacciando le principali foreste e superfici boschive su scala globale. Deforestazione che porta con sé conseguenze spesso irreversibili per la salute del suolo e la sua capacità di agire da barriera naturale contro diverse calamità naturali, quali frane ed allagamenti, nonché per la sopravvivenza di miliardi di animali che trovano sostentamento proprio negli ecosistemi boschivi.Inoltre, le monoculture di cotone dipendono in maniera spropositata dall’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici (basti pensare che il 24% degli insetticidi e l’11% dei pesticidi adoperati su scala globale sono utilizzati nelle grandi estensioni di cotone). Questi non sono soltanto una minaccia per la salute del suolo e la biodiversità naturale – e quindi per la sicurezza alimentare presente e futura – ma possono porre gravi rischi anche per la salute umana ed animale, nonché per la sopravvivenza delle api, insetti che si trovano già in serio pericolo d’estinzione.
Uccisione di milioni di animali nella produzione di indumenti in cuoio, pelle e pelliccia
Ultimo, ma certamente non meno importante, l’industria della fast fashion è responsabile dell’uccisione di centinaia di milioni di animali ogni anno (secondo alcune ricerche condotte dalla, il numero si aggirerebbe addirittura intorno ai 2.30 miliardi), tra cui ovini, bovini, alligatori, ma anche cani, gatti, insetti e serpenti utilizzati nella produzione su larga scala di capi in pelle, pelliccia o seta. Senza contare tutti quelli torturati ed uccisi indirettamente lungo l’intera catena produttiva, ad esempio a causa dell’inquinamento di aria ed acqua e della deforestazione del loro habitat naturale.
Come possiamo vedere, al di là della patina dorata degli abiti all’ultima moda e dei prezzi abbordabili, si tratta di un modello produttivo altamente insostenibile, che -allo stato attuale- è tra i maggiori responsabili dell’inquinamento atmosferico che sta rapidamente mettendo a repentaglio la sopravvivenza del nostro Pianeta. Ma non è finita qui: i meccanismi alla base della fast fashion portano inevitabilmente anche a diffuse violazione dei diritti dei lavoratori.
Fast fashion e sfruttamento umano
Produrre sempre di più, sempre più in fretta, ma ridurre al minimo i costi: questi sono gli imperativi alla base del successo della fast fashion. Ma come ottenere questi obiettivi all’apparenza in contrasto tra loro? Semplice, appaltando la produzione in Paesi in via di sviluppo in cui la manodopera è sottopagata, in cui non esistono tutele sindacali a protezione dei diritti dei lavoratori, e nei quali la legge non prevede standard minimi da rispettare per quanto riguarda la sicurezza sul posto del lavoro. Paesi come il Bangladesh, il Pakistan, l’India, il Vietnam, la Cambogia o l’Indonesia, dove i lavoratori sono disposti ad accollarsi turni di 14 ore o più, a ricevere paghe da fame e a lavorare in ambienti poco sicuri per la loro stessa salute.
Come facilmente prevedibile, queste precarie condizioni lavorative hanno portato – e probabilmente porteranno ancora – a tragici incidenti sul posto di lavoro, come quello avvenuto nell’aprile 2013 a Dacca (Bangladesh), dove hanno perso la vita 1.134 persone a causa del crollo della fabbrica di vestiti Rana Plaza. Più recentemente, un’inchiesta condotta sulle condizioni lavorative dei dipendenti del colosso cinese della fast-fashion SheIn ha fatto emergere condizioni di diffuso sfruttamento, con paghe di soli pochi centesimi a capo per turni lavorativi di 18 ore o più.
Fast fashion: ne vale davvero la pena?
A questo punto, la domanda da porci è se vale davvero la pena acquistare un capo che, per quanto alla moda ed economico, nasconde costi ambientali e sociali così elevati e, per di più, spesso è realizzato con materie prime di scarsissima qualità. La risposta, almeno per noi, è chiaramente no! Se, da un lato, il modello di business alla base della fast fashion ha reso la moda più democratica ed accessibile a tutti, dall’altra ha causato – e continuerà a causare – danni sempre più ingenti all’ambiente, agli animali e alle persone.
Ecco perché aziende e consumatori dovranno riconsiderare i principi alla base della fast fashion, ed orientarsi verso modelli produttivi e, soprattutto, di consumo (perché, ricordiamo, la domanda trascina sempre l’offerta) più etici e sostenibili nel lungo periodo. Ad esempio, rivalorizzando gli abiti usati o acquistando meno capi, ma di alta qualità, prodotti possibilmente con fibre naturali quali lino e canapa, meglio ancora se da piccole realtà imprenditoriali. Sebbene questi siano inevitabilmente più costosi, la loro durata sarà certamente di gran lunga superiore.
Dal canto loro, le grandi aziende dovranno impegnarsi ad adottare modelli di business realmente più sostenibili, in grado di rispettare i bisogni dei lavoratori e a basso impatto ambientale, che tengano a mente la salute degli animali e dei consumatori. Inoltre, sarà necessario investire nello sviluppo di nuove tecnologie e processi circolari, che rendano possibile il riutilizzo e la valorizzazione dei materiali di scarto e la riduzione della quantità di risorse necessarie alla loro produzione. Un sistema produttivo che, almeno inizialmente, richiederà investimenti e somme di denaro certamente più elevate, ma che si rivelerà più sostenibile nel lungo periodo
In conclusione, prima di acquistare una maglietta a 5 euro, o un pantalone a 15, impariamo a chiederci sempre che cosa si nasconde dietro ad un prezzo così basso, e a fare scelte più consapevoli e lungimiranti.
