
La guerra del petrolio tra Stati Uniti e Arabia Saudita
Gli ambientalisti statunitensi hanno cantato vittoria quando lo scorso 6 novembre Barak Obama ha annunciato l’abbandono del progetto per la costruzione del gigantesco oleodotto.
L’XL Keystone doveva collegare i giacimenti petroliferi canadesi con le raffinerie sul Golfo del Messico: ben 1.900 chilometri per una capacità di trasporto di 800.000 barili al giorno.
Secondo il Presidente dell’Unione, tale oleodotto “non avrebbe dato un contributo significativo alla crescita degli USA”. Questo cambio di rotta va letto però nell’odierna guerra del petrolio in corso a livello globale. Dopo 25 anni, grazie alle scoperte che hanno permesso l’estrazione massiccia di idrocarburi “non convenzionali” (e in particolare di shale oil e shale gas, il petrolio e il gas ottenuti frantumando scisti argillosi in profondità), gli Stati Uniti erano riusciti a toccare una punta produttiva di 1,2 milioni di barili al giorno: il primo mercato consumatore mondiale di energia era arrivato vicino al pareggio e all’autosufficienza.
La risposta dell’Opec
Ed era a questo punto scattata la mossa dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), dettata dall’Arabia Saudita a fine 2014: in sostanza non tagliare l’estrazione di greggio convenzionale anche se i prezzi, per via della crisi economica, stavano precipitando. Una strategia che l’Arabia Saudita aveva già adottato con successo nel 1986, quando era riuscita a portare il prezzo del barile sotto i 10 dollari, determinando il collasso della produzione statunitense. Anche oggi, la politica dell’Opec è stata orchestrata per infliggere un colpo mortale a questo nuovo genere di concorrenti.
L’estrazione di idrocarburi non convenzionali, infatti, ha come protagoniste piccole e medie imprese senza grande capitalizzazione, fortemente dipendenti dal credito; e, soprattutto, a causa della dispendiosità delle tecniche di estrazione, produce guadagni solo se il petrolio si vende sopra i 60 dollari al barile. Attualmente, però, soffrono non soltanto i produttori di shale oil, ma anche i paesi Opec, che hanno visto calare vertiginosamente gli introiti per l’estrazione e vendita di greggio.
Nessuna buona notizia (per il futuro)
Questa mossa strategica dell’Arabia Saudita finora ha portato vantaggi soltanto ai consumatori, che possono disporre di una benzina a prezzi ribassati, ma, a lungo andare, le conseguenze potrebbero essere gravi per tutti. Ciò che più sta risentendo della politica di sovrapproduzione e prezzi bassi, infatti, è la fase di ricerca e aggiornamento tecnologico. Il settore shale non investe più in ricerca, ma non lo fa nemmeno quello “tradizionale”. Si pongono così le basi per una futura carestia di greggio, e quindi per grandi bolle speculative. E non si tratta nemmeno di buone notizie per l’ambiente, perché un greggio a prezzi così bassi non incentiva la ricerca di alternative a questa storica, e pesante, ipoteca.
Ai consumatori non resta che aspettare che la ricerca sull’energia sostenibile faccia nuovi passi in avanti – e servono passi da gigante – perché cali la dipendenza dal petrolio. Una dipendenza che nell’ultimo secolo ha “giustificato” politiche nefaste e che ha responsabilità non marginali nell’odierno caos internazionale.
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