
Moda sostenibile: che cos’è e perché costa di più?
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I capi prodotti in modo etico e sostenibile hanno un prezzo mediamente più alto rispetto a quelli offerti dalle aziende di fast fashion. Ma siamo sicuri di sapere che cosa si nasconde dietro al prezzo di questi ultimi? Scopriamo insieme perché, nel lungo periodo, affidarsi alla moda etica è certamente la scelta più conveniente.
Scegliere di seguire uno stile di vita più etico e sostenibile può essere per molti versi costoso, soprattutto quando si tratta di acquistare capi d’abbigliamento prodotti nel pieno rispetto dell’ambiente e delle persone. Infatti, gli articoli offerti dai marchi sostenibili ed etici costano in genere da 2 a 6 volte in più rispetto a quelli offerti dalle popolarissime catene di fast fashion, a cui spesso scegliamo di affidarci proprio per ragioni di convenienza.
Tuttavia, ci siamo mai chiesti cosa si nasconda dietro a questo divario di prezzo? E quali siano i reali costi, sia in termini ambientali che sociali, che vengono sostenuti per la produzione di abbigliamento su larga scala? La risposta, che forse non piacerà ai più, è che gli articoli della fast fashion spesso non sono davvero così economici come crediamo, soprattutto nel lungo termine.
Ecco dunque perché è fondamentale non fermarsi al cartellino del prezzo e capire quali siano i reali costi -ed anche il reale valore– degli articoli che acquistiamo. Ed è quello che cercheremo di fare in questo articolo, partendo da una breve analisi di che cos’è la fast fashion e perché è cosi economica.
Il reale costo della fast fashion
La fast fashion è un modello di business incentrato sulla continua e rapida produzione di alti volumi di abbigliamento -basti pensare che ogni anno vengono prodotti più di 80 miliardi di capi di abbigliamento. Questa iper-produzione è resa possibile da una parte dall’utilizzo di materiali di bassa qualità e dall’altra dalla scelta di appaltare la manodopera ad aziende operanti in Paesi in via di sviluppo, dove non vengono riconosciuti i diritti di base dei lavoratori e in cui non esistono norme che disciplinino la tutela dell’ambiente da parte delle industrie. A tutto questo si aggiunge poi il raggiungimento di vantaggiose economie di scala, rese possibili proprio dall’elevato volume di produzione.
Inoltre, la possibilità di avere nuove collezioni a prezzi accessibili praticamente ogni settimana contribuisce a creare nel consumatore un bisogno impellente di voler essere costantemente al passo con le ultime tendenze, spingendolo in un circolo vizioso estremamente dannoso sia per sé stesso (in quanto essere vivente e consumatore) che per il Pianeta.
E sono proprio questi costi ambientali e sociali a nascondersi dietro al prezzo al consumatore dei capi di fast fashion. Ma quali sono, nello specifico, questi costi?
I costi ambientali della fast fashion
Il primo costo “nascosto” della fast fashion è quello ambientale. Come abbiamo visto, i colossi della fast fashion sono soliti spostare gran parte della propria produzione in Paesi del Terzo mondo, dove i costi delle materie prime e della manodopera sono sensibilmente minori.
Tuttavia, questo significa che i capi di abbigliamento devono viaggiare decine di migliaia di km per raggiungere i mercati esteri. Non è quindi una sorpresa che l’industria della moda sia, da sola, responsabile per oltre il 10% delle emissioni di carbonio a livello mondiale, ossia tra i 4 e 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica immesse nell’atmosfera ogni anno. Per farci un’idea, questi valori ammontano a più del totale delle emissioni causate dai voli internazionali e dalle tratte marittime messi insieme.
In secondo luogo, come abbiamo detto precedentemente, i vestiti della fast fashion passano di moda in modo estremamente rapido, inducendo il consumatore a sbarazzarsene altrettanto velocemente per poter rinnovare il proprio guardaroba. La portata di questo fenomeno sta raggiungendo dimensioni catastrofiche, al punto che un camion della spazzatura pieno di abiti non indossati viene portato in discarica ogni secondo, dove sarà poi generalmente incenerito. Se non saremo in grado di invertire questa tendenza, entro il 2050 l’industria della moda sarà responsabile per più di un quarto delle emissioni di carbonio prodotte su scala globale.
Infine, l’industria della moda è responsabile per circa il 20% delle acque reflue globali, ovvero acque di scarico contenenti sostanze organiche e inorganiche che possono recare danno alla salute umana e all’ambiente. Inoltre, gli agenti chimici usati nei diversi processi di tintura dei tessuti rappresentano la seconda causa di inquinamento idrico a livello globale. Senza contare che la produzione tessile è un’attività estremamente “water-intensive” (ad elevato consumo di acqua): sono necessari più di 8 metri cubi d’acqua (2.000 galloni di acqua) per produrre un unico paio di jeans.
Le materie prime della fast fashion: tra abuso di fertilizzanti e sostanze chimiche e violazione dei diritti degli animali
Le materie prime più frequentemente usate dall’industria della fast fashion sono altrettanto dannosi per l’ambiente, gli animali e la salute umana.
Il 60% degli abiti prodotti dai più comuni marchi di fast fashion sono infatti prodotti in petrolio e derivati, tra cui i più comuni sono poliestere, acrilico, nylon ed altre fibre sintetiche. Purtroppo, oltre ai costi ambientali derivanti dalla produzione ed uso di queste materie prime, il lavaggio di questi abiti creati a partire da materie prime sintetiche causa il rilascio di più di mezzo milione di tonnellate di microplastiche nell’oceano ogni anno. Se in alte concentrazioni, queste possono alterare il normale funzionamento degli ecosistemi marini, oltre che essere pericolose per la salute umana.
Al secondo posto tra i materiali più utilizzati nell’industria della moda troviamo il cotone. Nonostante questo possa essere considerato una fibra naturale, la sua produzione non è molto più sostenibile rispetto a quella delle fibre artificiali. Oltre a essere una delle colture a più alta intensità di acqua, le monoculture di cotone dipendono in maniera spropositata dall’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici (basti pensare che il 24% degli insetticidi e l’11% dei pesticidi adoperati su scala globale sono utilizzati nelle grandi estensioni di cotone). Questi non sono soltanto una minaccia per la biodiversità naturale e quindi per la sicurezza alimentare presente e futura, ma possono anche porre gravi rischi alla salute umana ed animale.
Da ultimo, troviamo materiali di origine animale, quali pelle, piume, seta e lana, la cui produzione causa la morte di milioni di animali ogni anno.
I costi umani della fast fashion
Ultimo, ma certamente non meno importante, è il costo umano della fast fashion. Salari irrisori, turni estenuanti e condizioni lavorative sotto gli standard minimi sono all’ordine del giorno per i lavoratori delle aziende responsabili della produzione di capi economici e di scarsa qualità. Sfortunatamente, queste precarie condizioni lavorative hanno portato a disastrosi incidenti sul lavoro, come quello avvenuto nell’edificio Rana Plaza a Dacca (Bangladesh), dove hanno tragicamente perso la vita 1.134 persone. Più recentemente, un’inchiesta condotta sulle condizioni lavorative dei dipendenti del colosso cinese della fast-fashion SheIn ha fatto emergere condizioni di diffuso sfruttamento, con paghe di soli pochi centesimi a capo per turni lavorativi di 18 ore o più.
Se dietro al prezzo di questi capi prodotti in modo poco etico si nasconde un costo così grande per l’ambiente, gli animali e le persone, allora è davvero il caso di chiederci se questi siano davvero così economici e di cercare delle alternative più sostenibili nel lungo termine. Tra queste, la moda etica e la rivalorizzazione dell’usato.
Moda sostenibile: è davvero così costosa?
«La moda sostenibile è eccessivamente costosa ed accessibile a pochi»: tutti dobbiamo averlo pensato almeno una volta e per questo deciso di ripiegare su articoli meno costosi, ma sicuramente di qualità inferiore.
Tuttavia, come abbiamo visto sopra, il problema é da ricercare nella nostra inabilità a dare il giusto valore alle cose, più che al loro prezzo in sé e per sé. Se, da un lato, i capi prodotti in modo sostenibile hanno un prezzo indubbiamente più alto rispetto a quelli della fast fashion, dall’altro lato questi hanno una qualità ed una durabilità maggiore (e quindi si possono usare più a lungo, riducendo le spese per l’acquisto di nuovi capi), oltre che un costo ambientale e sociale nettamente minore. Ecco dunque che vale la pena chiederci se la moda etica è davvero così costosa.
Ma, prima di tutto, cosa intendiamo per moda sostenibile? La moda sostenibile (o “sustainable fashion”) è una moda attenta alle esigenze dei lavoratori, dell’ambiente, degli animali e della società più in generale.
Ciò si traduce in una predilezione per fibre naturali e tessuti ecologici, quali lino, juta, canapa, e per materiali di riciclo, quali plastica o alluminio. Tutti materiali che possono aiutare a ridurre sensibilmente le esternalità negative su ambiente ed esseri viventi legate alla produzione tessile, quali sprechi idrici, uso di sostanze chimiche, emissioni di gas serra e dispersione di microplastiche e coloranti artificiali in mari e fiumi.
Una moda sostenibile è anche una moda che ha a cuore la salute ed i diritti dei lavoratori, che promuove l’occupazione e l’imprenditorialità femminile, che mira a soddisfare le esigenze del presente, senza dimenticare quelle delle generazioni future, che fa del riuso e del riciclo i suoi principi cardine e, infine, che investe nello sviluppo di nuove tecnologie e processi circolari che rendano possibile la riduzione dell’impatto della produzione tessile sul Pianeta e sulle sue risorse.
D’altro canto, avere una catena di approvvigionamento sostenibile significa produrre meno articoli usando materiali ecologici e di alta qualità e dunque sostenere costi relativamente più alti a quelli di una manifattura che opera su larga scala. D’altro canto, garantire agli operai la possibilità di lavorare in un luogo moderno e sicuro e pagare loro un salario equo sono costi che contribuiscono ad aumentare il prezzo finale dei prodotti di moda sostenibile -costi che sono invece ridotti all’osso per le aziende che producono fast fashion. Inoltre, non dobbiamo dimenticare i costi che le aziende devono sostenere se vogliono certificare l’eticità dei propri prodotti. Ovviamente, tutti questi fattori si riflettono nei prezzi finali degli articoli di “sustainable fashion”, che sono quindi necessariamente più alti rispetto a quelli dei capi di fast fashion. Ma, come ormai avremo capito, questi prezzi dicono poco o nulla se non prendiamo in considerazione il costo reale degli articoli di fast e sustainable fashion.
La domanda da porci è dunque questa: vogliamo un guardaroba fatto di molti pezzi poco costosi, di bassa qualità e responsabili di danni immensi al nostro Pianeta e ai suoi abitanti, o un guardaroba più ridotto, ma fatto di pezzi di alta qualità, resistenti e rispettosi dell’ambiente, delle persone e degli animali? Sicuramente la seconda opzione è migliore anche per il portafoglio!
In conclusione, abbiamo il potere di “votare con i nostri soldi” e di indirizzare e ri-orientare il mercato verso processi produttivi più etici e sostenibili. Ecco perché dovremmo scegliere di investire in piccole e medie aziende locali che danno priorità alla dignità e alla sicurezza dei lavoratori e delle loro comunità, al benessere degli animali e a quello del Pianeta.
Moda sostenibile: 5 marchi italiani
Le piccole e medie aziende italiane che si dedicano alla produzione di abbigliamento etico e sostenibile sono -fortunatamente- una realtà in crescita, sia per numero che per fatturato, merito anche di una maggior consapevolezza e sensibilità da parte del consumatore.
Qui, vogliamo brevemente menzionare 5 marchi italiani che negli ultimi anni si stanno distinguendo nel mondo della moda sostenibile.
- Rifò
Sostenibilità, qualità e responsabilità: questi sono i tre pilastri di Rifò (in toscano “rifare”), brand nato a Prato nel 2017 con la missione di creare linee di abbigliamento e di accessori di alta qualità, prodotte con fibre 100% rigenerate e rigenerabili. Allo stesso tempo, Rifò vuole essere anche un progetto di economia circolare, offrendo alle persone un servizio alternativo ai cassonetti urbani per smaltire i loro vecchi abiti, che saranno poi trasformati in nuovi prodotti - Cingomma
Ogni anno, soltanto in Italia, più di 380.000 tonnellate di pneumatici vengono destinati allo smaltimento. Ed è proprio partendo da questi materiali di scarto che Cingomma si impegna a realizzare abiti, accessori, ma anche complementi d’arredo di alta qualità, rispettosi dell’ambiente, eleganti e 100% prodotti in Italia. Un brand che vuole essere “industrioso” prima che “industriale”. - Bamboom
Bamboom è un brand italo-olandese interamente dedicato alla produzione di articoli di moda ed accessori per la prima infanzia in Bambù Organico, prestando particolare attenzione al design e alla qualità dei prodotti. Se questo non fosse abbastanza, Bamboom mette al primo posto la circular economy e la sostenibilità ambientale della sua produzione attraverso l’uso di materiali riciclati e di recupero. - Casa GIN
Genuino, Innovativo e Naturale, in tre lettere, GIN. Casa GIN è un brand di moda sostenibile e vegan nato a Padova nel 2017 con l’intento di creare un benessere più sostenibile. Il brand si occupa infatti della produzione di intimo ed abbigliamento per la casa 100% made in Italy, realizzato con fibre tessili vegetali, animal-free e dermocompatibili (quali legno di eucalipto e faggio). Inoltre, casa GIN è uno dei primi marchi italiani di intimo e abbigliamento che incorpora la sostenibilità in ogni area del business e dei processi produttivi. - Co Denim
Par.Co Denim è un brand che produce jeans di alta qualità, in Italia e in modo totalmente sostenibile. Ecco perché il brand si profila come la perfetta soluzione per chi ama i jeans, ma vuole dare il proprio contributo alla salvaguardia dell’ambiente. I jeans Par.Co Denim sono infatti interamente realizzati mediante l’uso materie prime, fibre e lavaggi sostenibili, nonché attraverso processi produttivi ecologici e privi di crudeltà. L’obiettivo finale è quello di educare i consumatori ad acquistare meno, ma di qualità.
