
L’impatto ambientale dell’olio di palma
L’olio di palma è dannoso per la salute e per l’ambiente? Qual è l’impatto di questa coltura sul futuro del nostro pianeta e quali sono le soluzioni esistenti?
Giunto negli ultimi tempi all’attenzione generale dell’opinione pubblica, l’olio di palma è al centro di un acceso dibattito in merito ai suoi effetti sull’ambiente: deforestazioni incontrollate, specie animali a rischio di estinzione, distruzione di biodiversità, sfruttamento del lavoro ed espropriazione delle terre degli indigeni.
Che cos’è l’olio di palma?
L’olio di palma è una sostanza di origine vegetale ottenuta grazie alla spremitura del frutto, detto drupa (attenzione a non confonderlo con il palmisto, ricavato dai semi e non dalla polpa). Attualmente è l’olio vegetale più usato al mondo e copre il 35% della produzione mondiale, seguito nell’ordine da quelli di soia (27%), di colza (14%), di girasole (8%), di arachidi, cotone e cocco (6%), e altri (10%). Rispetto a questi possiede una migliore resa produttiva, richiede l’impiego di meno terreno, meno acqua, meno fertilizzanti. E ha un costo inferiore. Per questi motivi la sua produzione è destinata ad aumentare: si stima che entro il 2050 possa raggiungere un +40%, a causa della crescita esponenziale della popolazione mondiale e della conseguente domanda di cibo.
Dove viene prodotto e chi lo importa
La produzione di olio di palma avviene nei Paesi della fascia tropicale: Africa, Sud America e Sud-Est asiatico, in particolare in Indonesia e Malesia (che coprono circa l’85% del mercato globale). Il consumo locale è una minima parte: la stragrande maggioranza viene esportata.
L’Italia ne importa migliaia di tonnellate l’anno: nel 2015 circa 1.600.000. Il principale settore di utilizzo è quello industriale: bioenergetico, oleochimico, zootecnico, farmaceutico e cosmetico. Ma un 21% è destinato all’alimentare, ambito che di recente ha portato l’olio di palma alla ribalta, protagonista di un acceso dibattito fra sostenitori e detrattori. Oltre alla gettonata domanda “Fa bene o fa male alla salute?”, l’elevata e crescente diffusione dell’olio di palma solleva tutta un’altra categoria di problemi: quale impatto ha infatti la sua produzione sull’ambiente?
Deforestazione e perdita di biodiversità
Negli ultimi trent’anni la coltivazione della palma da olio si è sviluppata a livelli incredibili, per opera di società multinazionali prive di scrupoli, intente soltanto ad aumentare i propri profitti. Si stima che al mondo ci siano tra i 12 e i 13 milioni di ettari di terreno destinato alle piantagioni dalle quali si produce olio di palma.
La continua conversione dei terreni in piantagioni è causa di deforestazioni incontrollate ed estreme. Le conseguenze della conversione delle foreste tropicali in vaste monoculture di palma da olio provocano la scomparsa di preziose e vitali foreste pluviali, il deterioramento delle torbiere, la soppressione di unici habitat naturali e, di conseguenza, una dannosissima perdita di biodiversità: oranghi, elefanti, tigri e rinoceronti sono tutte specie a rischio. Basti pensare che rispetto alle 80 specie di mammiferi presenti nelle foreste pluviali della Malesia, in quelle degradate se ne contano solo 30 e nelle piantagioni una dozzina scarsa. Nel 1990 erano censiti circa 315.000 oranghi: oggi se ne contano meno di 50.000, tra l’altro perlopiù sparpagliati in piccoli gruppi con pochissime possibilità di sopravvivere sul lungo periodo. Sia l’orango del Borneo sia quello di Sumatra sono specie a rischio di estinzione. A tutto questo si aggiungono erosione del suolo e dissesti idrogeologici nei territori interessati, inquinamento e aumento del gas serra in atmosfera, che sono fra le cause del sempre più evidente cambiamento climatico.
I produttori leader sono Indonesia e Malesia. In Indonesia la deforestazione è stata così veloce che nel 2007 il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) dichiarò che, se non si fosse arrestato il processo, praticamente la totalità della foresta si sarebbe estinta entro il 2022. Dal 2000 al 2012, l’Indonesia ha già perso oltre 6 milioni di ettari di foresta pluviale, è qui che si concentra il tasso di deforestazione più elevato al mondo. Ed è proprio a causa della produzione di olio di palma, che l’Indonesia è diventata il terzo paese al mondo per emissioni di gas serra, dopo Stati Uniti e Cina. Le coltivazioni di palma da olio crescono a scapito delle foreste, nonostante ci siano nel paese 20 milioni di ettari di terreno agricolo da utilizzare. Questo perché avviare palmeti in terreni erbosi e già sfruttati dall’agricoltura, necessita un lavoro di fertilizzazione del suolo più lungo e costoso rispetto ai costi della deforestazione, che vengono ampiamente ammortizzati dalla vendita di legname. Senza contare le piantagioni di palma da olio che crescono all’interno di zone formalmente protette, a questo proposito il governo Indonesiano ha stabilito una moratoria di due anni sui nuovi permessi di deforestazione, un primo passo verso il cambiamento.
In Malesia, invece, si ha avuto l’accortezza di stabilire per legge che almeno il 50% del territorio nazionale debba restare coperto da foreste (certo ad altre latitudini, ma la percentuale di Europa e Stati Uniti è di circa il 20%), mettendo un limite allo sfruttamento indiscriminato del suolo: la produzione, quindi, più che espandersi territorialmente, lo deve fare qualitativamente, aumentando la resa e innovando, dove possibile, le tecniche. Al contrario dell’Indonesia, la Malesia vanta una lunga storia e tradizione nella produzione di olio di palma, utilizzato già negli anni 60′-70′ come ingrediente di preparazioni alimentari. Grazie allo sviluppo del settore delle tecnologie olearie e oleochimiche e alle innovazioni tecnologiche che permettono di sfruttare le piantagioni di palma da olio già esistenti, in Malesia è riscontrabile uno dei migliori regimi di protezione delle foreste al mondo, riconosciuto ufficialmente dagli Stati Uniti e dalla Banca Mondiale ed il 63% del suolo è ancora coperto da foreste naturali. Il sistema virtuoso Malese ha portato inoltre ad un processo di riduzione della povertà: questa industria è una delle maggiori fonti di lavoro per la popolazione, il 40% delle piantagioni è infatti di proprietà di più di 300 mila piccoli agricoltori.
Ripercussioni sul tessuto sociale
Se da una parte la coltivazione intensiva della palme da olio porta all’espulsione delle popolazioni indigene (in Indonesia il 99% delle terre adibite a piantagioni di palma apparteneva agli indigeni), allo sfruttamento dei lavoratori (impiego di immigrati irregolari) e alla lesione dei diritti fondamentali nelle comunità dei maggiori paesi produttori, dall’altra la produzione di olio di palma ha modificato notevolmente il tessuto sociale di molte regioni, portando numerosi benefici come la creazione di infrastrutture tra cui scuole e centri di primo soccorso nelle zone dove sono state costruite fattorie e capanne. Sono state abbandonate pratiche tradizionali, poiché erano meno redditizie e in calo.
In Africa, soprattutto in Costa d’Avorio e Uganda, secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), la produzione di olio di palma è molto più sostenibile rispetto al Sud-Est asiatico, in quanto è ad appannaggio di piccoli proprietari terrieri, che non impoveriscono il terreno con dannose monocolture. Ed è la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) a incentivare la coltivazione dell’olio di palma in questi paesi come volano per migliorare le condizioni di vita e aumentare il reddito della popolazione locale, spesso sotto i livelli di sussistenza.
Olio di palma sostenibile
Boicottare l’olio di palma non è la soluzione, sono d’accordo persino autorevoli organizzazioni come WWF e Greenpeace, da sempre impegnate per la tutela del nostro pianeta. Perché la verità è che l’olio di palma ha comunque un costo ambientale minore rispetto a quello che hanno gli olii vegetali alternativi, a partire dalla quantità di terreno richiesta per raggiungere gli stessi livelli di produzione. Eufic sottolinea come il rendimento della palma da olio per acro di terra sia maggiore di circa cinque, sei, nove e undici volte rispetto a colza, girasole, soia e olivo. La soluzione, quindi, non è eliminarlo ma incentivarne una produzione sostenibile.
È ormai ammessa la necessità di stabilire regole universali e rigorose per minimizzare gli impatti e di effettuare controlli tali da garantire la tutela del territorio e il rispetto delle persone. A tale scopo nel 2004 è nata la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil) che, sostenendo in particolare i piccoli produttori, conferisce un certificato di sostenibilità a quegli olii che dimostrano origini conosciute e tracciabili, e di essere stati prodotti senza convertire foreste, nel rispetto degli ecosistemi e dei diritti dei lavoratori, delle popolazioni e delle comunità locali.
Già molte aziende in Italia e all’estero utilizzano solo olio garantito RSPO, che attualmente corrisponde al 21% della produzione mondiale. È evidente quanta sia ancora la strada da fare, ma le intenzioni sono buone: nel dicembre 2015 la RSPO, insieme a numerose altre realtà internazionali – dalla European Palm Oil Alliance all’Unione Italiana Olio di Palma Sostenibile –, ha sottoscritto una dichiarazione di impegno a rendere la filiera dell’olio di palma sostenibile al 100% entro il 2020. Più che una sfida, un imperativo.
Un impegno comune di produttori e consumatori
Ogni anno il WWF pubblica un report sull’impiego di olio di palma sostenibile da parte delle maggiori aziende che operano nel campo alimentare. Anche per le numerose proteste e dimostrazioni organizzate negli ultimi anni, molte di loro – tra cui i colossi Unilever e Nestlé – si sono impegnate a usare solo olio di palma sostenibile.
E così si spiega come mai molte aziende del settore alimentare pubblicizzino i loro prodotti specificando, a caratteri cubitali, l’assenza di olio di palma: consumatori poco informati o spaventati possono così essere sicuri, a priori, di acquistare qualcosa di sano e non nocivo.
Lo sforzo va indirizzato verso la riduzione al minimo dell’impatto sull’ambiente di questo tipo di produzione. Come? Per quanto concerne la produzione, scegliendo i terreni più adatti alla coltivazione, prevenendo la degradazione del suolo e preservandone la fertilità oppure evitando di ricorrere a incendi, per non incrementare l’emissione di gas serra nell’atmosfera terrestre. Le aziende alimentari, ma non solo, devono impegnarsi a utilizzare olio di palma sostenibile, per intercettare la domanda dei consumatori, attenti e responsabili.
Guarda il video del WWF sull’olio di palma sostenibile
