
Rewilding specialist: la professione del futuro
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Che cos’è il rewilding? E di che cosa si occupa un rewilder? Scopriamolo insieme in questo articolo dedicato a questa affascinante “professione del futuro”.
L’attuale crisi ambientale e climatica sta sempre più mettendo in discussione il nostro modo di interfacciarci e dialogare con il paesaggio naturale che ci circonda, evidenziando in particolar modo la nostra incapacità di tutelare e valorizzare l’inestimabile valore della biodiversità vegetale ed animale che popola gli ecosistemi terrestri e marini.
Basti pensare che, secondo le ultime stime dell’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), oltre il 28% delle specie animali ad oggi conosciute sono a serio rischio d’estinzione. Le cause? In primo luogo, deforestazione, bracconaggio e gli effetti devastanti del riscaldamento globale causato dalle attività antropiche, che si riversano inevitabilmente anche sulle “case” di questi esseri viventi. E non va certamente meglio per la grande varietà di specie vegetali (si parla di diversi milioni) che popolano i nostri ecosistemi terrestri e marini: secondo uno studio condotto dai ricercatori del Royal Botanic Gardens Kew, oltre il 40% delle piante sono destinate a scomparire entro i prossimi decenni.
Ovviamente, tutto questo produce effetti a cascata non solo sui delicati equilibri ecosistemici in cui queste specie sono inserite, ma anche – in un’accezione più olistica – su quelli della nostra biosfera, portando, tra le altre cose, all’intensificazione degli eventi atmosferici estremi legati al cambiamento climatico. Se, da un lato, questo è estremamente preoccupante per la sopravvivenza stessa della vita sulla Terra, dall’altro ha spinto ad interessanti riflessioni sul nostro ruolo – e sulla nostra capacità di azione – all’interno dei sistemi naturali.
Tra i risultati più promettenti di questo cambio di paradigma c’è sicuramente il crescente interesse verso il concetto di “rewilding” – un termine che può essere tradotto in italiano come “rinaturazione” o, ancora meglio, come “restituzione alla natura” – l’oggetto di studio una branca delle scienze ecologiche che si impegna a teorizzare e mettere in pratica una serie di complessi interventi atti al ripristino delle condizioni d’origine di un ambiente naturale degradato per mano dell’uomo, con particolare attenzione per gli equilibri ecosistemici.
Tra queste azioni che hanno come obiettivo ultimo quello di incrementare la biodiversità naturale e di favorire il ripristino degli ecosistemi possiamo trovare sia la reintroduzione di specie animali native e la gestione attiva delle terre, ma anche la re-forestazione degli habitat naturali ed il ripristino delle rotte di volo degli uccelli.
Insomma, si tratta di un’opera complessa, che richiede specifiche competenze e moltissima passione: non a caso, il rewilding è ormai diventato un campo di specializzazione insegnato in ambito accademico, e la figura del rewilding specialist (o rewilder), ovvero quel professionista che lavora per promuovere l’equilibrio ecologico e la conservazione delle specie, è sempre più richiesta – e lo sarà sempre di più negli anni a venire.
Nei prossimi paragrafi, scopriremo esattamente in che cosa consiste il lavoro del rewilding specialist, e quali sono le competenze richieste a chi desidera intraprendere questa “professione del futuro”. Ma prima, per comprendere appieno il ruolo del rewilder, è fondamentale definire il concetto di “rewilding” e capire quali sono le sue applicazioni pratiche all’interno degli ecosistemi naturali.
Rewilding: cos’è e quali sono le sue applicazioni pratiche?
Per capire quale è la missione di un rewilding specialist, è innanzitutto necessario analizzare che cosa si nasconde dietro il concetto di rewilding. Infatti, quello che spesso viene ignorato quando si parla di questa branca delle scienze ecologiche è che la reintroduzione delle specie animali a rischio nel loro habitat di origine è solo una delle sue tante facce – forse quella che più sta alla superficie – del rewilding, ed è necessario andare alla radice del concetto stesso di “rinaturazione” per capirne appieno le implicazione pratiche.
Per spiegare il perché di questa affermazione, possiamo affidarci alle parole della naturalista inglese Isabella Tree, autrice del libro “Wilding. Il ritorno della natura in una fattoria britannica”, che definisce l’essenza più profonda del rewilding come la “rinuncia dell’uomo di esercitare il suo controllo sull’ambiente, lasciando alla natura la libertà di esprimersi liberamente, senza costrizioni di alcun tipo”. Una sorta di “ritorno alla natura”, in cui l’uomo – da attore protagonista – (ri)diventa osservatore e, qualora necessario e solo in un secondo momento, facilitatore di quei processi naturali che lui stesso ha contribuito ad alterare, fin quando la natura non raggiungerà il punto in cui sarà in grado nuovamente di “governarsi” da sola.
Ecco perchè è necessario innanzitutto “rimettere l’uomo al suo posto” – sia da un punto di vista concettuale che empirico- prima di poter cominciare a parlare delle azioni pratiche che sono comunemente associate al termine rewilding, quali i grandi progetti di reintegrazione di specie native nel proprio habitat di origine, le opere di riforestazione di aree precedentemente antropizzate, il ripristino delle rotte di volo degli uccelli, la riapertura di vecchie vie d’acqua precedentemente costrette in canali adibiti all’irrigazione, e così via.
In questo modo, il rewilding ha non solo l’obiettivo di rendere gli ecosistemi naturali più resilienti, e dunque più capaci di mitigare gli effetti del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici, ma anche di rendere le società umane più prospere, integrate con l’ambiente naturale e, aspetto non da sottovalutare, anche più ricche, grazie alla creazione di nuovi posti di lavoro e investimenti nella cosiddetta «economia della contemplazione», ovvero quella branca del turismo dedita all’esplorazione dei luoghi selvatici e dei suoi abitanti.
Per riassumere quanto detto finora, il rewilding è una disciplina teorica nata per una specifica necessità (arginare l’incessante perdita di biodiversità naturale, in gran parte causata dall’azione dell’uomo sull’ambiente) ed ispirata dall’inselvatichimento naturale di alcuni luoghi abbandonati dall’uomo (quali la foresta di Harvard, distrutta nel corso del XIX secolo e ora rifiorita, o la Foresta Rossa di Chernobyl, cresciuta poco lontano dalle macerie della vecchia centrale nucleare), che con il tempo è andata via via prendendo sempre più popolarità, fino ad assumere una dimensione pratica ed olistica e a diventare una materia di studio insegnata in diversi corsi universitari ad indirizzo scientifico.
Diversi sono infatti i progetti a livello nazionale ed europeo che si occupano proprio del rewilding di alcune aree messe a serio rischio da perdita di biodiversità, cambiamento climatico e, più in generale, dalle azioni dell’uomo: tra quelli più importanti non possiamo non citare Rewilding Europe, un’organizzazione senza scopo di lucro con sede a Nijmegen, nei Paesi Bassi, che da oltre dieci anni lavora incessantemente con il contributo di diversi attori locali per proteggere ed espandere la biodiversità di alcune grandi aree europee, e Rewilding Apennines, impegnata sia nella creazione di ambienti più funzionali alla vita della fauna locale, che alla progettazione di corridoi sicuri che mirano a favorire l’espansione della popolazione di orso bruno marsicano -considerato in pericolo critico secondo le Liste Rosse compilate dall’IUCN- nei boschi dell’Italia centrale (i cosiddetti “smart bear corridors”).
A questo punto, non ci resta da scoprire chi è e cosa fa nella pratica il rewilder, e come ci si può avvicinare a questa professione che in futuro assumerà un ruolo sempre più di primo piano all’interno dei programmi di conservazione della biodiversità naturale.
Professione rewilder: chi è e quali sono le competenze necessarie per svolgere questa professione?
Rientrante a pieno nella categoria delle cosiddette “professioni del futuro” -ovvero quei profili lavorativi che avranno un’importanza crescente nel contesto di una società sempre più tecnologicamente progredita, ma che, allo stesso tempo, non potrà più ignorare le sfide poste alla sopravvivenza della vita sulla Terra dall’ambiente naturale che essa stessa ha contribuito a impoverire e distruggere- il rewilding strategist si occupa di proteggere la biodiversità naturale e rimediare ai danni ambientali causati dalle attività antropiche (tra le più nocive possiamo citare i sistemi di trasporto aereo e su strada, attività industriali, monocolture ed altri sistemi agricoli basati su tecniche produttive intensive).
In altri termini, il rewilder si occupa di progettare e “implementare” – nel vero senso del termine – paesaggi in grado di coesistere in perfetta armonia con l’ambiente naturale preesistente, dando dunque una dimensione concreta ai principi del rewilding esposti sopra.
A livello pratico, questo si traduce, ad esempio, nella progettazione di corridoi ecologici, la creazione di habitat adatti alla sopravvivenza e riproduzione di alcune specie target (in particolare quelle a rischio d’estinzione), la gestione delle popolazioni di specie reintrodotte in un determinato ambiente, ma anche la raccolta di dati sulla salute e il benessere degli animali, il controllo delle zoonosi e delle malattie trasmesse da una specie all’altra, ed il monitoraggio delle dinamiche predatori-preda.
Allo stesso tempo, per portare a termine con successo tutte queste iniziative, è necessaria anche la collaborazione ed la partecipazione attiva delle comunità locali che abitano sul territorio coinvolto dai grandi (e piccoli) progetti di rewilding. Questo si può tradurre sia nella partecipazione a campagne di educazione ambientale e sensibilizzazione circa l’importanza della conservazione della biodiversità naturale, ma anche attraverso l’organizzazione di eventi e attività legate alla gestione sostenibile delle risorse naturali.
Collaborazione che non si ferma al livello locale, ma coinvolge anche diversi attori all’interno della comunità scientifica (quali biologi, ricercatori, naturalisti..) così come organizzazioni ambientaliste, enti governativi e altre parti interessate, nel quadro del monitoraggio, della condivisione e dello sviluppo delle migliori strategie per la gestione dei progetti di rewilding.
Come si può diventare un rewilding strategist?
Il percorso di studi più comune per diventare un rewilder prevede l’iscrizione ad un percorso di laurea ad indirizzo biologico, agrario o ambientale (tra i migliori quelli proposti dall’Università La Sapienza di Roma e dall’Università degli Studi di Padova), eventualmente preceduto dalla frequentazione di un liceo scientifico o un istituto tecnico con indirizzo agrario, agroalimentare o agroindustriale.
Più in generale, tra le conoscenze richieste ad un rewilding strategist vi sono infatti rudimenti interdisciplinari che abbracciano settori quali la biologia, la zoologia, la geografia, l’ecologia, l’orticoltura, e la neuroscienza.
Insomma, si tratta di un lavoro adatto a ama la natura e cerca ogni giorno di prendersene cura adottando uno stile di vita più sostenibile, ma che presuppone anche forti conoscenze tecniche e scientifiche, così come buone capacità di analisi, valutazione e gestione dell’ambiente, del territorio delle sue risorse, di project management, di team work e, infine, di public speaking.
In conclusione, il rewilder è un lavoro complesso e sfaccettato, che richiede specifiche competenze tecniche, ma che è sempre più necessario e importante nell’ambito delle cosiddette “professioni del futuro”.
