Seaspiracy documentario Netflix sulla pesca intensiva

Seaspiracy: le scomode verità sulla pesca intensiva

Uscito a marzo è diventato in breve tempo uno dei contenuti più visti sulla piattaforma Netflix.  Seaspiracy, scritto e girato dal giovane documentarista Ali Tabrizi, é un film che racconta i retroscena inquietanti del business della pesca e le sue conseguenze sull’ambiente e sulla società dei paesi più poveri.  L’uscita del documentario ha suscitato molto clamore e alzato il velo su quelle che appaiono come contraddizioni del mondo ambientalista

Perché Seaspiracy è così sconvolgente?

Il documentairio di Tabrizi cambia completamente la prospettiva con la quale guardiamo al problema della plastica nei mari. Negli ultimi anni la consapevolezza dell’inquinamento dei mari causato dalle microplastiche è cresciuta moltissimo. Abbiamo probabilmente sentito tutti parlare dell’isola di plastica nel Pacifico, detta anche Pacific Trash Vortex, una chiazza di spazzatura galleggiante grande come quasi come un intero continente.

Tutti i media e le associazioni ambientaliste ci ricordano quotidianamente che i nostri comportamenti possono influire sul futuro del mare: l’uso di imballaggi e bottiglie è indicato come uno dei peggiori nemici dell’ambiente e del nostro futuro.

Questo ha portato molti di noi a cambiare abitudini di consumo, a partire dal riciclo più attento della plastica. Ma ci ha portato anche a cercare di utilizzare meno plastica, a scegliere prodotti confezionati con packaging alternativi, a ridurre il consumo di acqua in bottiglie di pet, perfino a smettere di utilizzare cannucce di plastica per le bibite.

Le aziende hanno fatto in fretta a capire questo trend e hanno cominciato a fare marketing sul packaging e sul minor consumo di plastica: dai fast food che non forniscono più le cannucce alle catene dell’abbigliamento che hanno sostituito i sacchetti di plastica con la carta o altri materiali deperibili

Ma quella che Seaspiracy ci racconta è un’altra storia. All’inizio l’obiettivo dell’autore è quello di denunciare la pesca indiscriminata di specie marine a rischio, come i cetacei (balene e delfini), che vengono cacciati sia per il consumo della loro carne sia per il mercato dei parchi acquatici, o degli squali, le cui pinne sono oggetto di un vasto mercato nero, soprattutto in estremo oriente.

Ma nel corso del progetto si rende conto che il vero cataclisma che sta distruggendo i mari e gli oceani è l’industria della pesca nel suo complesso: i mari vengono depredati ormai con tecnologie avanzatissime che permettono di pescare molto più di quanto le specie siano in grado di riprodursi. E come danno collaterale distruggono nel processo anche tante altre specie non direttamente coinvolte (altri pesci, come gli squali, cetacei, ma anche uccelli) portando a una graduale estinzione la vita sommersa.

Si arriva poi alla questione della plastica: la scoperta di Tabrizi è che oltre il 50% delle plastiche che inquinano i mari sono reti da pesca o comunque resti dell’attività di sfruttamento del mare. Quasi sempre gli animali spiaggiati o uccisi dalle plastiche sono vittime di reti abbandonate, piuttosto che di altri oggetti. Le cannucce delle bibite, delle quali tanto ci preoccupiamo, rappresentano solo lo 0,03% del totale. E perfino le bottiglie di plastica non hanno un impatto così importante come siamo portati a credere.

Eppure nessuna delle associazioni ambientaliste interpellate dal documentarista sembra avere coscienza del problema. Tutte le campagne e siti web dedicati al tema dell’inquinamento dei mari parlano solo della plastica prodotta dalle attività di consumo (sacchetti, flaconi, bottiglie ecc.) ma non fanno mai menzione dell’impatto negativo della pesca. Anzi, nel tentativo di intervistare alcuni rappresentanti delle principali organizzazioni ambientaliste si rende conto che le sue domande sulla pesca finiscono per innervosire gli interlocutori. Comincia così a pensare che dietro a tutta la comunicazione sulla plastica e sull’inquinamento dei mari ci sia una grande ipocrisia. Il business della pesca industriale è una macchina enorme, nella quale sono coinvolti poteri politici, grandi capitali e perfino la criminalità organizzata: parlare apertamente dei danni provocati dalla pesca intensiva sembra essere un tabù che nemmeno le grandi organizzazioni ambientaliste osano sfidare.

Persino le associazioni che certificano la pesca sostenibile concedendo le certificazioni ed i marchi di qualità alle aziende di distribuzione, ammettono di non avere nessuna possibilità per verificare se realmente le regole vengano rispettate. Il certificato Dolphin Safe, che in molti paesi viene apposto ad esempio sulle confezioni di tonno di alcune marche e che dovrebbe garantire che nessun delfino è stato accidentalmente ucciso durante la pesca, viene rilasciato sulla base di una semplice dichiarazione delle aziende. In pratica è sufficiente che il capitano di un peschereccio affermi di non aver ucciso delfini durante la battuta di pesca per ottenere il certificato. I responsabili dell’associazione ammettono candidamente di non avere alcuno strumento per verificare se le dichiarazioni fatte dai capitani e dalle aziende siano veritiere

Il fatto che mettersi contro i grandi poteri che controllano il mercato della pesca intensiva sia pericoloso è dimostrato dalla misteriosa scomparsa in mare di numerosi attivisti e ispettori che si erano imbarcati su pescherecci per fare controlli sul rispetto delle regole, e che non hanno mai fatto ritorno a terra.

Se la pesca è così disastrosa per l’ambiente, non va molto meglio per l’allevamento ittico: oltre ai problemi sanitari e di trattamento degli animali, che richiamano molto le situazioni viste negli allevamenti intensivi di polli o di maiali, il vero problema è che l’alimentazione dei pesci d’allevamento è composta prevalentemente di farine di pesce. Questo vuol dire che per produrre un Kg di pesce è necessario pescarne 14 Kg per produrre il mangime

La conclusione di Tabrizi è che, per quanto ne dicano governi e associazioni, non esiste oggi la possibilità di una pesca sostenibile, e che l’unica soluzione praticabile per chi voglia avere un comportamento rispettoso dell’ambiente sia di smettere completamente di mangiare pesce.

Critiche e opinioni discordanti

Bisogna dire però che il documentario ha sollevato molte critiche ed è stato da molte parti tacciato di gravi inesattezze. I dati citati sono spesso vecchi e non verificati. Nel documentario si cita ad esempio una ricerca secondo cui il mare sarà totalmente spopolato entro il 2048, ma il dato è di uno studio fatto quindici anni fa, poi smentito dallo stesso autore che aveva ammesso di aver fatto un grossolano errore.

Molti dicono che il documentario presenta una tesi molto forte senza mai documentarla adeguatamente, e che le affermazioni drastiche di Tabrizi sull’impossibilità di una pesca sostenibile sono quantomeno discutibili.

Isabella Pratesi direttice delle politiche di conservazione del WWF ha dichiarato: “Di tutti i sistemi, quello maggiormente responsabile della crisi ecologica che stiamo vivendo è il sistema alimentare: quello che mangiamo determina il 70% della perdita di biodiversità nel mondo. Nei paesi sviluppati ridurre il consumo di pesce è doveroso, ma non si può fare altrettanto in quei paesi dove la pesca è la principale fonte di proteine. La soluzione è una pesca che rispetti l’ecologia marina.”

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